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[23] Considerazioni sulla pervasività della religione nella società e negli ambienti di studio universitari in età tardo-medievale Manlio Bellomo n In un suo classico libro su ‘La cultura della città’, pubblicato nel lontano 1938, l’urbanista e architetto americano Mumford scolpiva con poche parole uno dei tratti fisionomici della società europea del medioevo: ‘L’individuo isolato, durante il medioevo , si trova ad avere per destino o l’esilio o la morte’.1 Sono parole che mi tornano in mente nel momento in cui comincio a riflettere su un tema che tocca direttamente la vita degli studenti convergenti verso le città dotte, e verso Bologna e Parigi prima che altrove e più che altrove. Alcuni giovani non giungono isolatamente. Conoscono i rischi del viaggio e perciò solo in gruppo ‘si fanno pellegrini per l’amore della scienza’, per adoperare le belle parole della famosa Constitutio ‘Habita’ di Federico Barbarossa.2 Stanno in un gruppo che raccoglie solamente giovani votati allo studio, studenti o prossimi a diventare tali, oppure in un gruppo che accomuna studenti, mercanti, viandanti per affari o per ambascerie , pellegrini e penitenti per ragione di fede.3 347 1. L. Mumford, La cultura della città (tradotto dall’edizione in inglese del 1938; Milano 1954) 20. Sul brano vedi M. Bellomo, Società e diritto nell’Italia medievale e moderna (I Libri di Erice 30; Roma 20032 ) 148. 2. Constitutio ‘Habita’, ed. W. Stelzer, ‘Zum Scholarenprivileg Friedrich Barbarossas (Authentica “Habita ”)’, DA 34 (1978) 165, che propone Bologna 1155 come luogo e anno della promulgazione. Di diversa opinione K. Zeillinger, ‘Das erste roncaglische Lehensgesetz Friedrich Barbarossas, das Scholarenprivileg (Authentica Habita) und Gottfried von Viterbo’, Römische Historische Mitteilungen 26 (1984) 191–217, che propone Goffredo da Viterbo come autore e Roncaglia 1154 come luogo e anno della promulgazione. 3. Per un quadro d’insieme vedi M. Bellomo, ‘Il medioevo e l’origine dell’Università’, in: L’Università e la sua storia, ed. L. Stracca. (Torino 1979–80) 13–25, ora anche in M. Bellomo, Medioevo edito e inedito. I. Scholae, Universitates , Studia (I Libri di Erice 20; Roma 19982 ) 13–30. Per i rapporti degli studenti con i mercanti è specifico M. Bellomo, ‘Studenti e “populus” nelle città universitarie italiane dal secolo XII al XIV’, in: Università e società Già prima di raggiungere la meta desiderata, la città degli studi, e poi ancora di più in questa, sono ‘in esilio’. Si trovano in una condizione che sembra preludere al destino più tragico, a quello della morte: e nel fatto, come testimoniano con dettagli alcune fonti, tutti stanno sulla soglia della morte, e per molti la morte arriverà.4 Mi riesce difficile immaginare, mi riesce difficile credere, che quei giovani ardenti e speranzosi, sprezzanti del pericolo e abbacinati dalla visione di città che i predicatori presentano come eletti ricettacoli di vizi e di perdizione, mi riesce difficile pensare che nessuno di loro non abbia messo in conto la probabilità della propria morte e non abbia mai avuto il dubbio e il timore di perdere l’anima nell’inferno minacciato da confessori e da parroci. Una preghiera l’hanno recitata. È certo, è documentato, che fra i primi atti del nuovo arrivato vi sono la visita in chiesa, la preghiera, l’affidamento al santo protettore. La descrizione la dobbiamo a Nigellus Wireker: come ogni viandante, lo studente, dopo avere scorciato la zazzera e vestita la sua tunica migliore, ‘va...... in chiesa: ringrazia Iddio, prega e fa voti’.5 Nella città l’incontro, o lo scontro, con i goliardi, forse desiderato, forse temuto, dà un diverso segnale: innanzi agli occhi dei nuovi arrivati si concretizzano, plasticamente, le fantasie sognate di una vita tutta terrena, condotta nell’ozio, nelle ore dell’amore, nel disordine materiale e morale della taverna e del postribolo, fuori da ogni regola, fuori da ogni impegno: ‘il tempo viene, e io non ho fatto niente / il tempo ritorna, e io non ho fatto niente’, recita un adagio corrente: non ho fatto niente di serio, si capisce.6 Sul filo dell’ironia Piacentino dà una voce colta alle tempeste emotive degli studenti diventati bolognesi: la giurisprudenza è donna avida, rapace, ha un viso esangue e denti affilati, mentre all’opposto la vita ordinata e operosa ha il viso lieto e sereno di donna che canta nei campi, specchio di fiducia e di affidabilità.7 Si può fare dell’ironia, ma la chiesa incombe. E ora può sorgere il dubbio che Piacennei secoli XII–XVI (Atti del Nono Convegno Internazionale del Centro Italiano di Studi di Storia...

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