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  • Dante politico:note per un profilo
  • Enrico Fenzi

Nel De vulgari eloquentia (1.12, 3–5), subito dopo aver citato con onore le canzoni Ancor che l'aigua per lo foco lassi e Amor, che lungiamente m'hai menato di Guido delle Colonne come esemplari del volgare illustre di Sicilia, Dante scarta all'improvviso dalla linea maestra del discorso che riprenderà avanti (§ 6), e introduce questa eloquente, e famosa, digressione che è opportuno citare per intero:

Sed hec fama Trinacrie terre, si recte signum ad quod tendit inspiciamus, videtur tantum in obproprium ytalorum principum remansisse, qui non heroico more sed plebeio secuntur superbiam. Siquidem illustres heroes, Fredericus Cesar et benegenitus eius Manfredus, nobilitatem ac rectitudinem sue forme pandentes, donec fortuna permisit, humana secuti sunt, brutalia dedignantes. Propter quod corde nobiles atque gratiarum dotati inherere tantorum principum maiestati conati sunt, ita ut eorum tempore quicquid excellentes animi Latinorum enitebantur primitus in tantorum coronatorum aula prodibat; et quia regale solium erat Sicilia, factum est ut quicquid nostri predecessores vulgariter protulerunt, sicilianum vocetur: quod quidem retinemus et nos nec posteri nostri permutare valebunt. Racha, racha! Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinnabulum secundi Karoli, quid cornua Iohannis et Azonis marchionum potentum, quid aliorum magnatum tibie, nisi "Venite carnifices, venite altriplices, venite avaritie sectatores?"1

Una prima rapida glossa. È impossibile sottovalutare questo omaggio a Federico II e Manfredi che non cessa di sorprendere per il tono vibrante, per la portata politica clamorosamente ghibellina e per la complessa sostanza ideologica, che rinvia alle teorizzazioni sulla nobiltà svolte dieci anni prima nella canzone Le dolci rime, ora riprese e sviluppate in direzione apertamente aristocratica e 'imperiale' nel libro 4 del Convivio, ove la canzone è ampiamente commentata. Di più, non è possibile [End Page 23] riferire queste parole a una momentanea fiammata d'entusiasmo, perché ad esse s'accompagna una serie di condanne che definiscono un complesso quadro politico di riferimento e possono dunque suonare ancora più significative dell'esaltazione che le precede e alla quale si contrappongono. La grottesca orchestrina di principi e di marchesi del tempo presente che Dante insulta con tanta violenza nelle ultime righe del passo è composta, nell'ordine, da Federico II d'Aragona (1272–1337), incoronato re di Sicilia nel 1296 e riconfermato nel 1302 con la pace di Caltabellotta; Carlo II d'Angiò (1248–1309), figlio del primo Carlo, incoronato re di Sicilia da papa Niccolò IV nel 1289, donde appunto la guerra con il re aragonese; Giovanni di Monferrato, ultimo e, per Dante, degenere erede della dinastia degli Aleramici, che dopo la morte del padre Guglielmo nelle carceri di Alessandria, riparò ancora fanciullo in Provenza e a Napoli, donde tornò in Piemonte nel 1294 per ricostituire il dominio di famiglia, e morì senza eredi nel gennaio 1305; e infine Azzo VIII d'Este, stretto alleato dei Neri fiorentini e insieme a Carlo d'Angiò pilastro decisivo del loro potere, succeduto al padre Opizzo II nel 1293 e morto nel 1308.2

Di ciò si dovrà riparlare. Nell'immediato, basta forse dire che questa, databile al 1304–1305, è la prima esplicita e articolata dichiarazione di fede politica di Dante che ci sia rimasta. Con essa sembra abbia chiuso con la stagione della giovinezza e della prima maturità, ristretta entro l'orizzonte cittadino e ancorata a posizioni guelfe, e apra come ghibellino la seconda parte della sua vita, quella da esiliato. Il "feditore a cavallo" che nel 1289 aveva combattuto a Campaldino contro i ghibellini di Arezzo ha dunque mutato il suo credo politico, e l'ha fatto per sempre, in maniera radicale e definitiva. Nei primi anni del nuovo secolo qualcosa finisce e qualcos'altro comincia, e la vita di Dante ne è spartita in due: il guelfo fiorentino che entra nei consigli cittadini nel 1295 diventa il "ghibellin fuggiasco" del 1302, e le sue esperienze e idealità politiche mutano profondamente. Non è facile ricostruire le tappe di questo pur evidente passaggio maturato in anni convulsi e difficili, ma studi eccellenti hanno ormai aperto la strada e con il loro aiuto si cercherà di percorrerla.

Il 6 luglio 1295 Dante interviene nel Consiglio generale del Podestà in favore dei cosiddetti 'temperamenti' da apportare agli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella in vigore da...

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