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  • Dante e Galileo
  • Roberto Fedi (bio)

Non si può non notare, per chi entri in Casa Buonarroti in via Ghibellina a Firenze, nella sala dello Studio in alto, la fascia degli affreschi dedicati alla cosiddetta Glorificazione dei toscani illustri, eseguiti dal fiorentino Francesco Montelatici, detto Cecco Bravo (nato nel 1601), fra il 1633 e il 1637 per incarico di Michelangelo Buonarroti il Giovane. Su, nell'elegante rassegna di maestri nelle varie arti—inclusa la poesia—ecco allora Galileo Galilei, assorto, con in mano l'obbligatorio cannocchiale.


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Fig 3.1.

Archivio Fotografico Fondazione Casa Buonarroti Firenze.

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Fig 3.2.

Archivio Fotografico Fondazione Casa Buonarroti Firenze.

Ma se il visitatore si sofferma un poco più in là, a sinistra, ecco che spunta un ometto curioso, calvo ma con folta barba bianca, a dire la verità strano in quel contesto e molto anziano. Il quale, ad accrescere la nostra curiosità di turisti non per caso, ha in mano—e lo regge con un po' di sforzo ma lo guarda quasi con affetto—una specie di giocattolo o costruzione in legno, un largo imbuto, a dire il vero simile a un alveare, aperto da un lato. Dallo spaccato, si intravedono chiaramente cerchi concentrici, che sempre più si restringono verso il fondo dell'imbuto. Chi è costui? E che ci sta a fare con Galileo?

Quello che Cecco Bravo rappresenta—con maestria in lui non insolita—è di fatto un breve ma quasi stupefacente capitolo della [End Page S-34] fortuna di Dante fra il quindicesimo e il sedicesimo secolo a Firenze: dove, per ovvi motivi, il culto dantesco non si era mai assopito. L'omino che, con il suo alveare di legno (chiamiamolo così), sta a poche decine di centimetri da Galileo è Antonio Manetti, che era nato a Firenze nel 1423 e lì sarebbe morto anziano, settanta quattro anni più tardi. Ci si potrebbe chiedere perché sia lì, e perché proprio con quel pesante imbuto in mano.

È una storia importante. E, come in ogni storia che si rispetti, bisognerà fare adesso un piccolo passo indietro. Si parlerà così di Dante e del suo inferno e non di poesia si discuterà qui ma di misure, di compassi, di caduta dei gravi e di aritmetica—e di Galileo, naturalmente, che nacque, come si sa, a Pisa il 15 febbraio 1564. Perché può sembrare strano ma c'è stata una schiera di gente—una sorta di manipolo, una band of brothers, insomma, the happy few—che nel corso dei secoli si è data da fare per misurare, proprio in senso letterale, l'inferno e che, non potendo andarci personalmente per lo meno in vita, si è messa a studiare con i compassi e metri l'inferno più autorevole che avevano a disposizione, bello squadernato come una mappa: naturalmente, l'Inferno di Dante. Di questa schiera di "geometri," lanciati a misurare l'inferno dantesco, Galilei non è il primo, neanche l'ultimo, ma solo il più celebre. Andiamo con ordine.

Spostiamoci un po' su quanto stava accadendo a Firenze fra il Quattro e il Cinquecento, dove da poco si erano conclusi i lavori per la costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore: nel 1436 fu terminata la cupola di Filippo Brunelleschi e nel 1461 Manetti—proprio lui, l'omino di cui sopra si fa menzione—terminò i lavori per la lanterna. Non sembri fuori luogo il riferimento a Brunelleschi, attento lettore di Dante, come testimonia Giorgio Vasari. L'interesse per Dante si associava al nuovo modo di guardare il mondo determinato dalla scoperta della prospettiva, che da scienza della visione era presto divenuta applicazione di procedimenti geometrici alle arti figurative: era iniziato un nuovo modo di rappresentare lo spazio e anche di pensare, una nuova cultura.

Che cos'è la prospettiva? Lasciamo la parola proprio a Manetti: "è […] porre bene […] accrescimenti che appaiono […] delle cose di lungi e da presso: casamenti, piani e montagne e paesi d'ogni ragione."1 Bene: questa nuova teoria, che considera la dimensione di ciò che si osserva e la sua profondità, viene applicata anche al poema di Dante. E prima? Per avere un esempio di come la voragine infernale fosse [End...

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