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  • Federico II e l’ambivalenza del sacro nella Commedia
  • Donatella Stocchi-Perucchio (bio)

Tra gli interrogativi suscitati nell’opera di Dante dalla figura dell’imperatore svevo, uno dei più interessanti rimane il motivo del giudizio morale a lui riservato nella Commedia. Tale giudizio continua a lasciare spazio all’indagine sia che si considerino quegli aspetti che hanno indotto più di uno studioso a vedere in Federico II l’incarnazione dell’ideale monarchico dantesco, sia che si prenda atto dell’evidenza che ha premesso ad altri di metterne in risalto le manchevolezze.1 La condanna per eresia che, proprio alla luce di un’apparente identità d’intenti, molti hanno relegato a fatto marginale ascrivendola principalmente alla nota miscredenza dell’Imperatore, ha in realtà motivazioni più profonde. Una lettura attenta del testo poetico suggerisce piuttosto una diretta connessione con la concezione della sovranità del “secondo Federico” (Inf. 10.119) che a sua volta invita a riconsiderare l’ambito morale abbracciato dell’eresia.

Il documento princeps di tale concezione sono le Costituzioni di Melfi del 1231, altrimenti designate Liber Augustalis. Grande opera di Federico legislatore, la cui stesura è dovuta all’ingegno retorico-giuridico di Pier delle Vigne, il Codice, soprattutto nel proemio, nel primo Titolo e in alcuni passi teorici, costituisce, oltre ad una raccolta di leggi, [End Page S233] un’affermazione di principio e il testo programmatico di una linea politica ampiamente riscontrabile nei documenti della Cancelleria imperiale. Nel Liber si esprime l’idea di una sovranità universale che trova ragion d’essere nel concorso tra Provvidenza divina e necessità naturale. Al peccato originale, inteso in senso agostiniano come trasgressione della legge, la Provvidenza ripara istituendo la sovranità temporale con il compito di restaurare, attraverso la legge, l’ordine perduto. L’imperatore, in quanto esecutore della Provvidenza e giudice supremo, rivendica su di sé una funzione redentrice e di mediazione tra uomo e Dio, mettendosi implicitamente in un rapporto figurale sia con il Cristo venuto che con il Cristo venturo.

Queste le grandi linee di una concezione che a buon diritto può definirsi giuricentrica e cristocentrica.2 Infatti, pur fondandosi principalmente sul diritto e su un’autorità imperiale che, come “legem animatam […] hominibus”,3 del diritto vuole essere incarnazione, tale sovranità è non meno cristocentrica, se osserviamo modi e forme del suo manifestarsi: modi e forme che sono quelli del sacro e che, quando non trasferiti sul piano della religio iuris, si rifanno all’antica tradizione della regalità cristomimetica. Di questo troviamo testimonianza, con diverse gradazioni di tono e intensità, non solo nel Proemio e nei documenti della Cancelleria, ma nella letteratura encomiastica fiorita attorno alla Curia imperiale e nella simbologia del potere variamente iscritta nei monumenti, nei castelli e nell’iconografia federiciana.

È su questo piano simbolico-sacrale che l’idea imperiale di Federico II si interseca con quella di Dante poeta. Imperatore e poeta sembrano muoversi nell’ambito di una comune ‘semiotica del sacro’ in cui risaltano il simbolismo cristologico solare, la tipologia edenica, il figuralismo davidico-salomonico e l’emblematica della giustizia. Ma proprio in questo ambito comune Dante, giocando sulla doppia valenza semantica del termine ‘sacro,’ già presente nella lingua latina, da una parte afferma—in apparente sintonia con Federico—la propria visione sacra dell’impero iscritto nel disegno provvidenziale della Redenzione e con a capo l’imperatore cristomimeta, ma dall’altra indica nello stesso Federico colui che è nel contempo propugnatore della sacralità e suo supremo dissacratore: è su questo piano di incontro e scontro che intendiamo soffermarci. [End Page S234]

Dante ebbe con le fonti federiciane una notevole familiarità, quando non del tutto storicamente documentabile, almeno ipotizzabile sulla base dell’evidenza testuale. Un testo celebrativo dell’Imperatore che, per raffinatezza retorica e ricchezza di contenuti, costituisce un documento eloquente della teocrazia regia di Federico II è il dictamen dell’abate o diacono Nicolaus Barensis, scoperto in Germania dal Kloos nel 1954: questo testo offre spunti suggestivi in relazione al problema, da approfondire ulteriormente, di quanto Dante si confronti con i principi del Liber e attraverso quali mediazioni. Mentre l’encomio di Nicolaus erige un monumento alla cristomimesi imperiale e al suo carattere sacro, Dante sembra intento a smantellarlo sistematicamente. Il testo dell’abate è un concentrato dell’apparato simbolico usato dal poeta...

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