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  • Leopardi Teorico Della Traduzione
  • Bruno Nacci

Sul numero d’ottobre 1826 dell’«Antologia», Pietro Giordani dedica all’amico Vincenzo Monti la traduzione della Lettera CXIV di Seneca a Lucilio, premettendo al testo una lunga e articolata riflessione sulla storia delle traduzioni senechiane e, soprattutto, sui problemi e sul senso della traduzione in generale. In ordine ai problemi, Giordani mette a fuoco con grande acume quello che potremmo definire il tema della responsabilità oggettiva del traduttore. In altri termini, si chiede come sia possibile conservare le eventuali imperfezioni del testo originario senza che ciò sia imputato al traduttore, invece di riconoscergli il merito di questa particolare fedeltà: «Ma quanti sono i lettori di sottil giudizio a vedere nella copia la fatica e il pregio di chi ritrasse per arte i difetti dello innanzi?» 1 . Riferendosi poi al significato intrinseco del tradurre, Giordani lo riconduce integralmente a un esercizio di scrittura orientato sul valore del modello: a) i giovani e le nazioni giovani ricorrono istintivamente a un modello; b) così come nelle arti figurative, la copia dal maestro mette l’allievo in condizione di apprendere e sviluppare ogni dettaglio dell’arte. Per concludere, Giordani invita a non indulgere nell’esercizio delle traduzioni, opportune nella fase di formazione di una lingua e di una nazione, ma [End Page 58] a creare direttamente opere originali, anche perché la traduzione dei classici è difficilissima riguardo allo stile e inutile per i contenuti, già noti e assimilati, mentre quella dei moderni è impossibile, in quanto si dovrebbe trasportare nella cultura italiana una sensibilità del tutto estranea alla nostra. Pochi mesi dopo, nel Discorso in proposito di una orazione greca di Giorgio Gemisto Pletone e volgarizzamento della medesima, Leopardi riprende le affermazioni dell’amico contestandone, non senza una certa forzatura, le premesse. 2 In sostanza L. osserva che: 1) dalla difficoltà di realizzare buone traduzioni non si può argomentare la non opportunità della traduzione in quanto tale; 2) la diffusione dei contenuti della tradizione classica riguarda un esiguo numero di persone colte e dunque il suo ampliamento è auspicabile; 3) le traduzioni come ogni opera dello spirito hanno un valore non riconducibile alla pura utilità o meglio: «servono esse a dilettare lo spirito: effetto che io non ho mai saputo intendere come non sia utilità. Quasi che l’uomo cercasse o potesse cercare in sua vita altro che il diletto [...] io per me leggo con piacere uguale la Rettorica di Aristotele nella propria scrittura greca, e nella nostrale del Caro» 3 . [End Page 59] L. non entra nel merito delle traduzioni da lingue moderne, né in quello sulla realizzabilità di una buona traduzione, ma difende con passione il genere traduzione, a cui riconosce una evidente pari dignità e autonomia letteraria rispetto alle altre forme espressive. D’altra parte queste osservazioni s’inseriscono nella premessa alla traduzione di un’orazione greca di quel Gemisto Pletone (lodatissimo da L.) che, in pieno Quattrocento, imitava i grandi retori greci con accenti retorici e passionali allo stesso tempo. Qui l’umanesimo illuminista dei due amici, Giordani e L., rivela un punto di rottura che è indice prezioso dell’evoluzione leopardiana dalla filologia pura alla letteratura, attraverso una spericolata e profondissima meditazione filosofica: tutto ciò che appartiene all’ambito letterario ha un suo valore irriducibile a qualsivoglia criterio esterno ad esso in quanto espressione di esigenze naturali (illusioni, immaginazione, ecc.) fondamentali. Ma ciò che più conta è constatare come nel 1827, quando la prodigiosa stagione delle traduzioni leopardiane è quasi completamente terminata, il poeta, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, non solo contesta il deprezzamento della traduzione fatto (almeno parzialmente) da Giordani, ma attenua le sue originarie idee sulla traduzione come mezzo per maturare una scrittura propria e originale, idee che proprio Giordani, dieci anni prima, gli aveva istillato. 4 Il fatto in sé appare significativo di quella tendenza a una rigorosa definizione concettuale (estetica, filosofica e linguistica) e a una non meno rigorosa deduzione, che se non fa di L. un pensatore sistematico, lo colloca certamente tra i più organici della nostra cultura non solo ottocentesca. All’altezza del 1826 L. ha già scritto la maggior parte dei Canti e delle Operette morali: chi più di lui avrebbe potuto convenire con Giordani sul carattere di mero...

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