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  • Pasolini celebrato o tradito?
  • Carla Benedetti (bio)

Per tutto il 2005 e i primi mesi del 2006 si è celebrato in Italia il trentennale della morte di Pier Paolo Pasolini. Non c'è stato quotidiano o rivista che non gli abbia dedicato un articolo o un numero speciale. Non c'è stata città che non abbia organizzato una qualche iniziativa in suo nome, o non abbia almeno proiettato qualche suo film.

Si sa che le celebrazioni hanno sempre qualcosa di ambivalente perché rischiano di ingessare ciò che celebrano, di marmorizzarlo e di renderlo inerte. Ma nel caso di Pasolini il rischio aumenta di almeno cento volte. Egli è stato infatti non solo una grande figura di poeta, di regista e di critico del costume, ma anche una figura scomoda per la cultura italiana. Perciò è quasi inevitabile che persino mentre lo celebra, anzi proprio mentre lo celebra, la cultura ita-liana abbia cercato in qualche modo di imbozzolarlo, di avvolgerlo dentro strati di madreperla, come fa l'ostrica con il batterio.

Dico la cultura italiana perché quello di Pasolini non è stato semplicemente un conflitto col suo tempo, o con ciò che egli chiamava il Nuovo Potere. È stato anche un conflitto con il paese, con le sue forme specifiche di [End Page 141] potere e con tutta la sua cultura, anche con quella antropologica. È stata una lunga colluttazione con l'Italia, che non è finita con la sua morte, ma ancora continua.

Come altri intellettuali italiani venuti prima di lui (come Leopardi, Gobetti, Gramsci, Gadda, ma anche come altre voci odierne), Pasolini si è trovato preso in un conflitto insolito, sconosciuto a altre nazioni europee. Non in conflitto con un potere dittatoriale apertamente repressivo, ma con cecità, ipocrisie, cinismi, semplificazioni, retorica, connivenze che formano come un nemico trasversale che sta dappertutto: un nemico interno, forse radi-cato nel costume stesso degli italiani, per usare l'espressione di Leopardi. O forse radicato in quella che Pasolini, in Petrolio (1992), chiama polemicamente la "scienza italianistica", cioè la collusione pseudo-innocente col potere, tipica degli intellettuali italiani.1 Tutto questo ha conferito un carattere particolare al suo "impegno". Quella di Pasolini non è stata semplicemente una passione civile ma quasi un furore civile.

Rileggiamo la lista delle imputazioni per il processo ai gerarchi DC da lui auspicato in un articolo del 28 agosto 1975, intitolato "Bisognerebbe processare i gerarchi DC", poi raccolto nelle Lettere luterane:

[. . .] indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid,2 responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell'abbandono "selvaggio" delle campagne, responsabilità dell'esplosione "selvaggia" della "cultura di massa" e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori.

(Pasolini, 1999, 637–38)

Questo "furore" è animato dalla volontà di tenere presente tutto, di vederlo tutto assieme, senza separare, come invece tendono a fare colpevolmente altri intellettuali. [End Page 142]

Negli ultimi anni della sua vita le accuse che Pasolini muove agli intellettuali italiani sono forti e precise. La prima è che essi si sono macchiati dell'"imperdonabile colpa" di separare i fenomeni, per non voler vedere l'insieme di quella degradazione e di quel deterioramento. Essi non hanno voluto guardare l'intero "mosaico della realtà italiana, che non si può guardare nel suo insieme se non a costo di restare impietriti" (Pasolini, 1999, 635). E poi c'è l'altra accusa, la più terribile: "Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani" (Pasolini, 1999, 619).

E allora è ovvio che il paese e i suoi intellettuali l'abbiano ripagato con attacchi, distorsioni, espulsioni. E che ancora oggi gli traccino attorno dei cordoni sanitari, perché il suo esempio non diventi contagioso.

Pasolini è stato una figura di conflitto, e quindi una figura...

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