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  • Federico De Roberto e le ragioni del potere*
  • Mark Chu

Nella Letteratura della nuova Italia, Croce condannò sommariamente I Vicerè di Federico De Roberto. Scrisse:

Zolianamente vi apportò l’intenzione di dimostrare [...] che una gente, usa per secoli a dominare, non abbandona questa sua pratica per larghi e profondi che siano i rivolgimenti sociali e politici accaduti, attraverso i quali gl’individui di quella famiglia, armati della capacità ricevuta ereditariamente, riescono a sormontare e continuano, in modi nuovi, a dominare [...]. Questa idea [...] non aveva in ogni caso bisogno di un così grosso libro per essere esemplificata, dato che ciò fosse necessario e dato che contenesse una verità dimostrabile, della quale cosa è da dubitare. 1

Il giudizio di Croce è riduttivo, e andrebbe visto nel contesto non soltanto dell’avversione di Croce per il positivismo, ma anche della sua adesione al mito del Risorgimento. È da ricordare, comunque, che I Vicerè uscirono nel 1894, poco dopo lo scandalo della Banca Romana (1892–93) e nell’anno in cui il movimento protosocialista dei Fasci siciliani dei lavoratori venne represso violentemente da un governo conservatore guidato dal politico siciliano Francesco Crispi. 2 Mentre è forse eccessiva l’affermazione di Mario Pomilio che I Vicerè costituiscono [End Page 74] il primo tentativo serio di rivalutare gli effetti del Risorgimento sul Mezzogiorno e “la denunzia più coraggiosa del trasformismo del mondo politico meridionale,” 3 è pur vero che il romanzo è sintomatico di una diffusa atmosfera di delusione per la mancata corrispondenza fra gli ideali e la realtà del Risorgimento in Sicilia. Insieme a L’Imperio (pubblicato incompleto nel 1929, due anni dopo la morte dell’autore) I Vicerè testimoniano, da una parte, della delusione storica dell’autore e, dall’altra, della sua profonda avversione per i meccanismi del potere.

L’analisi della natura umana compiuta da De Roberto sembra più o meno corrispondere a quella di Hobbes nella prima parte del Leviatano, secondo la quale la disposizione generale di tutta l’umanità sarebbe il perpetuo ed irrequieto desiderio del potere di ottenere il potere, desiderio che cessa soltanto con la morte. 4 Nei romanzi di cui qui mi occuperò, questo desiderio si articola, come nel modello di Hobbes, nella lotta continua per il dominio sugli altri, o perlomeno per non essere privati del proprio potere dagli altri. Tuttavia, contemporaneamente, si nota ne I Vicerè e ne L’Imperio un’idea più complessa del potere, una consapevolezza della sua natura produttiva, cioè la capacità del potere di produrre dei “discorsi di verità,” per usare la terminologia di Foucault, discorsi che a loro volta riproducono il potere. 5 Fra i discorsi del potere, quello della ragione occupa una posizione preminente.

I titoli stessi de I Vicerè e de L’Imperio indicano la centralità, in questi due romanzi, del tema del potere. In una lettera del 1891 indirizzata allo scrittore palermitano Ferdinando Di Giorgi, l’autore annuncia la [End Page 75] sua decisione di sostituire il titolo, I Vicerè, a quello originale di Vecchia razza, così, in parte, spostando l’enfasi dal tema naturalista, che De Roberto si propone, del “decadimento fisico e morale d’una stirpe esausta” a quello del potere esercitato e goduto dalla famiglia. 6 È evidente che, nel tracciare i caratteri ereditari degli Uzeda e la decadenza della famiglia dovuta all’impoverimento del sangue, De Roberto fu influenzato dalle teorie di Darwin e dalla scienza positivista in generale. Il romanzo echeggia anche la teoria de la race, le moment et le milieu di Taine, che De Roberto conobbe attraverso Zola, descritto nella prefazione ai Documenti umani quale “maestro dei maestri.” 7

Significativa è la scena con cui si apre il romanzo. Prima ancora che si faccia riferimento ai moti del Risorgimento e prima ancora che apprendiamo della morte della principessa Teresa Uzeda e Risà, avvenimento che scatenerà la lotta per l’eredità materiale e morale fra i familiari, troviamo un’allusione al potere esercitato dalla famiglia dei vicerè: nel quadro iniziale, uno dei servi di palazzo Uzeda, dinanzi al portone, trastulla il suo bambino, “mostrandogli lo scudo marmoreo infisso al sommo dell’arco, la rastrelleria inchiodata sul muro del vestibolo dove, ai tempi antichi, i lanzi del principe appendevano le alabarde.” 8 È un chiaro riferimento al dominio feudale degli Uzeda...

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