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MLN 120.1 (2005) 173-189



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Paolo Sarpi fra Montaigne e Charron

Università di Bari

Il presente saggio si propone di ripercorrere le forme di scrittura dei Pensieri medico-morali e dei Pensieri sulla religione del padre servita Paolo Sarpi: in particolare, ci si soffermerà sull'incidenza delle letture che Sarpi fece degli Essais di Michel Eyquem de Montaigne (1588) e del De la sagesse di Pierre Charron (1601). Il riferimento a passaggi testuali renderà possibile verificare i parallelismi tematici e l'influenza della cultura francese di fine Cinquecento sui due trattatelli sarpiani.

Intanto v'è un episodio della biografia di Paolo Sarpi che attesta della conoscenza degli Essais di Montaigne. Informa Fulgenzio Micanzio nella Vita del padre Paolo che il servita aveva preso l'abitudine di ricevere nel monastero del suo ordine, a Venezia, Marco Trevisan, un giovane patrizio il quale si era già presentato a lui al momento del debutto nella vita politica come savio agli ordini, per una visita di cortesia.

Sembra che Sarpi "non si abbandonasse al gusto della conversazione neppure con quell'interlocutore, e che restasse assorto in se stesso, ad ascoltare e a meditare, limitandosi a farlo parlar molto con 'pochi detti.'"1 E tuttavia Marco Trevisan parlava assai liberamente; informando il servita della formicolante vita veneziana e arrivando anche a criticarlo per le sue abitudini di studio che non conoscevano sosta. "Ha un gran cuore questo Trevisanetto," soleva dire il frate; e aggiungeva: "Lodato Iddio che ho pur trovato uno che mi parla e non [End Page 173] in maschera."2 Per questo, quando Trevisan raccontò a Sarpi di una sua affettuosa amicizia con un altro patrizio veneziano, Niccolò Barbarico, il servita, lungi dall'insospettirsi, ordinò al suo fedele Micanzio di tradurre nell'italiano dalla lingua francese il saggio di Montaigne sull'amicizia: un testo del quale fece dono ai due patrizi veneziani.

Le pagine di Montaigne "sur l'amitié" dovevano aver toccato una nota particolare: forse il servita, uomo "schivo, così assorbito nei suoi pensieri e curioso di quelli altrui solo per farne alimento dei propri," nutriva "un desiderio inconscio e represso di sentire intorno a sé un calore analogo a quello che il Montaigne diceva di esserci stato fra La Boétie e lui."3 Senonché, la conferma di un vero e proprio rapporto incrociato tra un desiderio di solitudine e un desiderio di amicizia è in un altro episodio della biografia di Sarpi. Sempre Micanzio ci informa che, allorquando il servita ricevé la notizia della morte di Monsieur de Maisse—già ambasciatore francese a Venezia, e presumibilmente lo stesso che aveva fatto conoscere nella lingua originale il saggio di Montaigne sull'amicizia—Sarpi "sentì dolore immenso, che dimostrò al signor Pietro Assellineau col dirgli 'Noi abbiamo perso il nostro mensieur de Maisse: questa è ben grave ferita che non ha rimedio.'"4 E Micanzio commenta: "Et in questa condizione umana, che tra amici si sia spettatore o spettacolo, sì come il padre amava sinceramente, così sentiva gran scontento o doglia."5

Condizione umana, dice Micanzio: e l'espressione ci riporta a quella, analoga, di Montaigne. E anche quella immagine dello spettatore e dello spettacolo, che sottintende quelle complementari di teatro, amicizia, solitudine, nel mentre fa pensare al saggio di Montaigne sull'amicizia, rinvia al testo sarpiano sicuramente più vicino agli Essais: i Pensieri medico-morali. Infatti, trattando della condizione umana e della solitudine e dell'amicizia, così scrive Sarpi:

Mai piglia impresa di voler persuadere la tua opinione all'universale, che è impossibile: né per leggerezza ti lascia uscir parola contro la comune, ma abbi "verba in tua potestate," al che giova "minimum cum aliis loqui, plurimum secum": e se puoi stare così mascherato con tutti, non curare ch'alcuno vegga la tua faccia; e se non puoi contenere il prorito di lasciarla [End Page 174] vedere, eleggi con giudicio, e con precedente prova pochi o uno dicendo con Epicuro: "Satis magnum alter alteri theatrum sumus."6

I Pensieri medico-morali sono stati definiti "un vero e proprio autoritratto, l'unico che Sarpi abbia mai scritto," insieme a una lettera a Giacomo Badoer...

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