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148 XIV. Il pitocco Cantavano; e il lor canto era fanciullo, dei tempi andati; non sapean che quello. E nella stiva in cui giaceva immerso nel dolce sonno, si stirò le braccia e si sfregò le palpebre coi pugni Iro, il pitocco. E niuno lo sapeva laggiù, qual grosso baco che si chiude in un irsuto bozzolo lanoso, forse a dormire. Ché solea nel verno lì nella nave d’Odisseo dormire, se lo cacciava dalla calda stalla l’uomo bifolco, o s’ei temeva i cani del pecoraio. Nella buona estate dormia sotto le stelle alla rugiada. Ora quivi obliava la vecchiaia trista e la fame; quando il suono e il canto lo destò. Dentro gli ondeggiava il cuore: Non odo il suono della cetra arguta? Dunque non era sogno il mio, che or ora portavo ai proci, ai proci morti, un messo: ed ecco nell’opaco atrio la cetra udivo, e le lor voci esili e rauche. Invero udiva il tintinnio tuttora e il canto fioco tra il fragor dell’onde, qual di querule querule ranelle per un’acquata, quando ancor c’è il sole. E tra sé favellava Iro il pitocco: O son presso ad un vero atrio di vivi? ...

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