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CARITÁ PROFITTO NELLA DOTTRINA ECONOMICA FRANCESCANA DA BONAVENTURA ALL’OLIVI Il pensiero economico francescano può essere, alla fine del XIII secolo, storicamente percepito come sistema linguistico organizzato e tecnicamente specifico, soprattutto a partire da una sua caratteristica metodologica fondamentale: la profonda connessione che esso rivela fra la nozione di charitas, ovvero sistema relazionale cristiano delle amicizie e degli affetti interni alla civitas, e nozione di profitto (lucrum) ovvero fruttuosità secondo diverse prospettive semantiche, nei termini concretizzati dagli scritti di Bonaventura, Riccardo di Mediavilla, Olivi, e altri magistri francescani. In effetti, l’abilità degli Scolastici francescani a chiarire la nozione di prosperità spirituale scaturente dall’amore o dall’affetto fra concittadini secondo metafore basate sull’idea del fruttifero investimento di un capitale, può essere una buona prova della stretta correlazione, palese nel loro vocabolario concettuale, fra logica della produttività e obbligo morale e legale di una pietas e di una charitas, in se stesse intese come quotidiana imitazione umana dell’amore divino. Possiamo leggere nelle Collationes de septem donis Spiritus Sancti di Bonaventura, che pietas e charitas in quanto doni divini, se, da un lato avvicinano l’uomo a Dio, d’altra parte però devono essere l’oggetto di una continua attività umana in grado di moltiplicarne gli effetti e il senso. Bonaventura, nella sua terza Collatio, de dono pietatis, osserva che … circa istum donum pietatis tria sunt nobis consideranda, scilicet pietatis exercitium, pietatis emolumentum et pietatis originale principium. Si est donum, oportet scire, qualiter donatur; si est nobile donum, oportet scire, qualiter in ipso proficiamus et nos exerceamus; si est donum utile, videamus, quem fructum inde consequamur. Analogamente, ancora Bonaventura, nella prima Collatio de gratia, nota che l’apostolo Paolo, aveva ammonito i Cristiani: ad divinam gratiam suscipiendam, ad susceptam custodiendam et ad gratiam susceptam et custoditam multiplicandam. Hortatur nos, ne in vacuum gratiam Dei accipiamus, sed fructuose eam recipiamus: ergo vult dicere, quod simus prompti ad gratiam Dei suscipiendam, custodiendam et multiplicandam. In altri termini, charitas e pietas, intesi come atteggiamenti o attitudini concretamente riguardanti il prossimo e, più in generale, il mondo creato, sono intesi da Bonaventura come potenzialità la cui realizzazione dipende e deriva dalla loro fruttuosa moltiplicazione, ossia dalla loro reale produttività e fruttificazione. Il significato profondo di una tale concettualizzazione bonaventuriana non dipende soltanto dalla connessione teorica fra potentia e actus di matrice aristotelica; esso, piuttosto, e più complessamente, sembra derivare da una tradizione testuale, monastica nelle sue premesse, successivamente messa a punto e attentamente analizzata dalla Scuola francescana, e che nella categoria economica dell’usus aveva ritenuto di rintracciare la chiave esplicativa della dialettica che legava il soggetto umano alle cose create. Di fatto, come è noto, non è difficile mostrare, se si consideri da un punto di vista economico l’innovazione religiosa e mistica rappresentata dal movimento francescano, l’estrema importanza che in tale svolta venne assumendo la categoria dell’uso e quella da essa derivata della utilità relativa delle cose del mondo: intese entrambe come concettualizzazioni di una quotidiana imitazione del Cristo, ovvero degli atteggiamenti economici nei quali poteva concretizzarsi di giorno in giorno l’imitazione terrena del potere e della povertà del Cristo. Ma era stato all’interno della tradizione testuale monastica, e specialmente della testualità riformatrice dei secoli XI e XII, che la nozione di utilità e fruttuosità aveva raggiunto un alto grado di sviluppo nell’ambito dell’area semantica caratterizzata dalle parole fructificatio/ multiplicatio. Già Pier Damiani, del resto, nel 1059, citando un passo di Girolamo sull’otium, aveva potuto paragonare l’utilità di un vescovo per la Chiesa alla capacità di un mercante di far fruttare la propria ricchezza: Dum enim de otioso Ecclesiae pastore tractaret [Girolamo], adjecit: “Illico, inquit, indignantis Domini responsione ferietur: Serve nequam, quare non dedisti pecuniam ad mensam, ut ego veniens cum usuris utique exegissem illam?” Quod idem doctor protinus exponens, ait, id est, deposuisses ad altare quod ferre non poteras. Dum enim tu ignavus negotiator denarium tenes, alterius locum, qui pecuniam duplicare poterat, occupasti. Hoc ego sancti viri consilium, fateor, libenter arripui; et onus, cui succumbere compellebar, abjeci. Imo pecuniam, quam duplicare non poteram, negotiator ignavus ad altare deposui. Girolamo, insomma, sottolineava Damiani, aveva fondato la sua critica dell’incapacità episcopale sulla parabola dei talenti...

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