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  • Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto
  • Andrea Rodighiero
Ferrari, Anna, ed. 1998. Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno, Roma, 25–27 maggio 1995. Spoleto: Centro italiano di studi sull’alto Medioevo.

Pur avendo oramai da tempo la filologia romanza acquisito statuto di disciplina autonoma, su di essa ha a lungo aleggiato una sorta di sottintesa soggezione: considerata ancilla della sorella maggiore, la filologia classica, se ne è sentita debitrice per metodi e norme, laddove in realtà saperi e pratiche rimangono, almeno in parte, distinti. Utile strumento per fissare lo status quaestionis e insieme per tracciare nuove vie di dibattito (dunque punto d’arrivo e ottimo pretesto per riaprire la discussione) è il denso volume a cura di Anna Ferrari, Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto.

La ricchezza e la varietà dei contributi (con l’aggiunta, con sicuro profitto per tutti, di temi inquadrabili in una terza filologia: quella medievale e umanistica, sospesa tra le altre due e interdisciplinare per sua stessa vocazione) farebbero pensare addirittura a più filologie, quasi che le “esperienze ecdotiche” evocate dal titolo potessero—e per certi aspetti dovessero—porre a confronto non solo filologia romanza e filologia classica, quanto piuttosto nodi e problemi che singoli e più ristretti àmbiti di studio si trovano ad affrontare. Ciò a dire che editare testi diversi (per conservazione, trasmissione, contenuto), sia pure all’interno di un medesimo insegnamento, [End Page 111] mette di fronte anche a domande che sono, di volta in volta, differenti; così potremmo, forse esagerando, affermare che l’edizione di un frammento papiraceo è equamente distante da un’edizione di Arnaut Daniel e da quella di Apollonio Rodio. Viceversa, un primo e inevitabile discrimine disciplinare sarà offerto proprio dallo statuto culturale assunto nel tempo dai due corpora fuori e dentro l’accademia. La primazia, certa solo sul piano di uno sviluppo diacronico, della filologia classica sulla romanza riesce facilmente deducibile da un semplice sguardo alla storia degli studi, ovvero quando si pensi alla veste di “canonicità”—anche scolastica—di cui il mondo letterario greco e latino si è per secoli ammantato, profilando l’urgenza da tutti avvertita di rendere quel mondo disponibile a un più largo pubblico. Alla filologia romanza spetta forse un più gran merito, quello di aver restituito dignità di stampa alla letteratura che andava formandosi proprio nei secoli in cui si rendeva possibile il guado, fino alla sponda della modernità, della maggioranza dei testi classici a noi noti. Da una prospettiva di “storia del libro”, dovremmo dunque considerare coeva la produzione di testi che concernono i due distinti campi: se il Medioevo ha prodotto gli originali (quasi sempre per noi chimerici) della letteratura romanza, esso rappresenta anche l’origine accertabile della storia della tradizione della letteratura classica (passaggio da maiuscola a minuscola, moltiplicarsi delle copie manoscritte, uso del palinsesto, riconoscibilità degli scriptoria, ecc.). Il Medioevo, allora, come principio di tutte le filologie e momento propulsore della trasmissione dei testi? Muovendoci costantemente sull’asse affinità/estraneità, questa apparente contiguità è inficiata dal fatto che il classicista ha nella più parte dei casi a che fare soltanto con la storia recente di un testo (dal Medioevo, appunto), rimanendogli inaccessibile un percorso che si spinga indietro fino alla evidenza concreta di un’idea di archetipo, ovvero di un supporto che davvero possa restituire per quanto possibile l’opera nella sua forma originaria. Restando ben lontano da una simultaneità tra produzione della base materiale e attività autoriale a volte quasi perfetta, il filologo classico deve inevitabilmente fare i conti con una tradizione non solo manoscritta ma anche esegetica che lo precede di secoli, e che si rivela solo a tratti decifrabile. Un caso per tutti, ma certo uno dei più eclatanti: se esisteva una sorta di “edizione nazionale”—un archetipo, di fatto—dei testi dei tre grandi tragici ateniesi di quinto secolo, fissata con pubblico decreto intorno alla metà del quarto, i drammi, rispetto alla prima messa in scena, presentavano interventi testuali probabilmente cospicui che già ne rendevano incerto lo statuto di “originali”, venticinque secoli fa. Su questa linea, dunque, sfuggendo quasi completamente all’antichista i contorni di una riflessione intorno alla nozione di autografo (almeno [End Page 112...

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