Michigan State University Press
  • Roma e Hiroshima città eterne:La persistenza del passato nel pensiero di Emanuele Severino

Il Tutto e il qualcosa

la fisica ci dice che, dopo la distruzione atomica di hiroshima, la quantità totale di energia dell'universo è rimasta invariata. Ma Hiroshima non era soltanto una quantità di energia: questa quantità esisteva come un'unità specifica di figure, colori, suoni, stati d'animo; ed è di questa unità che noi diciamo che è diventata niente. Se non fosse diventata niente (o se nessun aspetto di Hiroshima fosse diventato un niente), noi non diremmo che Hiroshima è andata distrutta.

(Severino 1981, 16)

È a partire da questo esempio, certamente tra i più icastici a disposizione, che Emanuele Severino si è chiesto se, al modo della filosofia da Aristotele in poi, sia auspicabile liquidare il passato e il futuro come dimensioni in cui le cose semplicemente "non ci sono più" e "non ci sono ancora", e sono quindi niente. Poche righe dopo infatti leggiamo: "Della città di Hiroshima noi dicia-mo che è diventata niente. Ma Hiroshima non significa 'niente', e cioè non è [End Page 135] un niente. Noi dunque pensiamo che ciò che non è un niente è un niente". È vera un'altra cosa, aggiunge Severino: ciò che passa non transita interamente nel passato. Di una casa distrutta rimangono i rimpianti, gli odi, le conseguenze, gli affetti. Però non rimane tutto, e in una distruzione c'è pure un qualcosa che deve diventare un niente: "Per lo meno diventa un niente l'unità e la forma che i materiali della casa possedevano quando la casa era; per lo meno diventa un niente l'atmosfera irripetibile costituita da questa unità e forma" (1981, 28). Ma il pensiero occidentale, secondo l'accusa di Severino, non fa problema dello sparire di questo qualcosa. Lo dà anzi per scontato, perché sulla supposizione che l'ente possa essere niente e diventare niente, che l'ente possa appunto apparire nell'essere e sparire dall'essere, si fondano tanto la metafisica e la religione quanto il progetto tecnologico di dominazione della terra. Entrambi i progetti, infatti, dimostrano uguale (cioè nessuna) considerazione per le cose che, così come possono essere create e distrutte da Dio, allo stesso modo vengono prodotte, usate e liquidate all'uomo.

A tale prassi nichilista dell'Occidente Severino ha contrapposto, come si ricava dalla sua vasta opera teoretica, l'affermazione vigorosa di una triplice eternità: l'eternità dell'ente, l'eternità dell'orizzonte dell'apparire e l'eternità dell'ordine secondo il quale gli enti, di volta in volta, si mostrano o si celano in tale orizzonte. Per meglio illustrare la sua tesi, Severino accenna anche all'ipotesi formulata da Freud nel primo capitolo del Disagio della civiltà (1971). Poiché il passato come vissuto psichico non si distrugge, suggerisce Freud, se la città di Roma venisse considerata come un'entità psichica [psychisches Wesen], il suo passato coesisterebbe tutto insieme, in tutte le fasi del suo sviluppo. La Roma Palatina, la Roma dei Sette Colli, la Roma delle mura serviane e la Roma aureliana sarebbero impensabilmente compresenti, e dove ora sorge il palazzo Caffarelli si ergerebbe contemporaneamente anche il tempio di Giove Capitolino, non solo nel suo aspetto imperiale ma anche in quello più antico e preromano, quando ancora presentava forme etrusche. Così è l'inconscio, nel quale tutte le fasi della vita psichica condividono lo stesso spazio e lo stesso tempo. La coscienza, al contrario, è come l'archeologo che può dissotterrare solo uno strato alla volta, e che anzi deve fare continuamente posto agli ultimi reperti spostando altrove il materiale già recuperato (Freud 1971, 204–5). Ma anche a questa distinzione freudiana, tra un inconscio senza tempo e una coscienza soggetta all'azione del tempo, Severino ribatte implacabilmente che, secondo il discorso della verità, "ogni ente (una città, come uno stato d'animo o una istituzione sociale) è eterno" (Severino 1980, 170). La [End Page 136] Roma fantasticata da Freud come pura ipotesi descrittiva dell'inconscio è l'unica Roma che esista secondo necessità e nella totalità dell'orizzonte dell'essere.

Torniamo dunque a Hiroshima, a questa "cosa" che secondo il nichilismo e il senso comune non ci sarebbe più e che secondo Severino, invece, ci sarebbe per sempre.

Che cosa può dire di Hiroshima un pensiero rimemorante (vale a dire, un pensiero che accetta la sparizione dell'ente nel passato come un dato di fatto e che così si dispone a ricordarlo)? La memoria di Hiroshima è nelle tracce, nei documenti, nei resti, nelle testimonianze dei sopravvissuti, nel museo cittadino che le raccoglie e nella pietas dei posteri. Ma tale pietas ha bisogno di leggere, vedere, ascoltare, interpretare l'accaduto Hiroshima con le tecniche storiche ed ermeneutiche a disposizione del soggetto interpretante. È così che viene preservato il senso di quell'ente che era Hiroshima e di quel 6 agosto 1945 nel quale la città che aveva quel nome è andata distrutta. Ricordare, ripensare e reinterpretare questo senso è un compito etico. Ma un altro senso, il senso comune, non attribuisce a questo compito nessuna portata ontologi-ca. L'essere dell'ente, sempre secondo il senso comune, non ha bisogno della nostra disponibilità a rimemorarlo. Se anche la nostra civiltà dimenticasse Hiroshima, se le testimonianze scomparissero, se i suoi effetti decadessero dalla biosfera, se nascessero generazioni e generazioni che non ne sentissero mai parlare e non ne sapessero nulla fino all'eternità, non per questo il fatto della sua distruzione cesserebbe di essere accaduto. Così ragioniamo, e ci sembrerebbe insensato giungere a conclusioni differenti. Ma Severino, comprensibilmente, non si accontenta dei dettami del senso comune.

Nel linguaggio del "destino della verità", come lo chiama Severino, il ricordare e il dimenticare non sono né funzioni psicologiche né facoltà della coscienza trascendentale. Il dimenticare è il cerchio dell'apparire in quanto non contiene più un determinato contenuto, un "qualcosa". Il ricordare è il cerchio dell'apparire in quanto contiene ancora in sé il ricordato. Il dimenticato appare come dimenticato nella totalità di ciò che appare, ma da quella totalità non è mai uscito. Ciò che appare e scompare sono solo le variazioni del contenuto totale, che Severino chiama suggestivamente "l'inoltrarsi della terra nel cerchio dell'apparire" (Severino 1980, 1976). Quando una variazione del contenuto avviene, definiamo con il termine "passato" l'attesa che quella variazione ha attraversato per sopraggiungere come totalità di ciò che appare, e che sarà presto sorpassata da una nuova totalità. Chiamiamo dunque passato anche l'apparire ormai sorpassato dalla totalità sopraggiunta, ma l'avvicendamento delle totalità sopraggiungenti non ci autorizza a concludere che la totalità sorpassata sia [End Page 137] divenuta un niente: "Nel passato, l'ente rimane tutto ciò che esso, nella sua de-stinazione all'apparire, è riuscito a mostrare di sé nel presente" (185).

La domanda che tale argomentazione lascia in sospeso è: riuscito a mostrare a chi? La totalità di ciò che appare, e che potremmo anche definire come totalità del raffigurabile, non appare affatto se non vi è un occhio davanti al quale appare. Detto altrimenti: la totalità del raffigurabile è sempre inclusa nella totalità di un raffigurato (il fuori testo, per citare Derrida, c'è, ma—aggiungiamo—è nel testo; il mondo non scritto, per citare Calvino, c'è, ma—aggiungiamo—è nel mondo scritto). Dove sarebbe, altrimenti? Qualunque luogo al quale si volesse assegnare la totalità del raffigurabile sarebbe pur sempre un altro raffigurato, un'altra cornice nella quale la totali-tà del raffigurabile prenderebbe posto, divenendo così totalità raffigurata. E l'espressione "totalità di ciò che appare", peraltro, ha senso solo per il vedente-interpretante al quale la totalità appare e che la interpreta come tale. Senza la presenza di un interpretante non c'è nessuna totalizzazione della totalità. Che cosa c'è, dunque, in assenza di un interpretante? C'è nulla, perché nessuna relazione segnica si è istituita, nessun segno è giunto a destinazione e dunque nessun significato è accaduto e costituito (non c'è nessuno a dire: "Questa è una totalità"). Allo stesso modo c'è anche tutto, perché c'è una totalità indivisa, non attraversata da nessun segno, non interpretata, e che dunque non è ancora stata incrinata da nessuna differenza, traccia o fessura. Quello che sicuramente non c'è, in questa totalità che è nulla e tutto, è il qualcosa.

L'ipotesi sul mondo

Il mondo, l'orizzonte e l'esperienza non sono "tutto". Sono solo "qualcosa", e se manca l'interpretante è questo qualcosa a non esserci. Le categorie descrittive introdotte da Severino (sopraggiungere, permanere, passare), potrebbero essere riscritte in termini semiotico-ermeneutici, ma richiederebbero comunque la presenza di un osservatore (il quale, beninteso, non è disgiunto dalla totalità di ciò che appare). È solo per questo osservatore che ogni nuova descrizione realizza una differenza rispetto alla totalità come si dava nell'istante immediatamente precedente alla totalità sopraggiunta. La totalità di ciò che appare non si dà mai se non come tentativo, come ipotesi (come inferenza abduttiva, direbbe C. S. Peirce), cioè come mondo che deve essere continuamente confermato dall'esperienza, aperto a ulteriori conferme o a ulteriori smentite. Il sopraggiungere di una nuova totalità è così una nuova ipotesi, una nuova inferenza abduttiva che poi le strutture dell'esperienza dovranno [End Page 138] confermare empiricamente. Il puro passare, che è quanto della totalità sorpassata non permane nella totalità sopraggiunta: è il nulla di entrambe le totalità. Ma non è solo la totalità sorpassata a passare per questo nulla. Anche la totalità sopraggiunta non avrebbe potuto sopraggiungere se non avesse avuto il suo nulla nella totalità che ha sorpassato e nella totalità che la sorpasserà. Se così non fosse, se nessuna differenza si interponesse fra di esse, la totali-tà dell'apparire si ridurrebbe a un'indivisibile e impercepibile totalità delle totalità.

La totalità sorpassata, del resto, non cade nel nulla puro e semplice, bensì nell'interpretazione che ne propone la totalità che l'ha sorpassata. A partire dai segni che le pertengono e che permangono nella totalità sopraggiunta, è questa interpretazione a definire come sorpassata la totalità che più non appare. È questo il luogo dove, dell'ente, rimane ciò che di esso si mostra nel presente. Possiamo chiamare "passato" questo luogo per comodità di esposizione, ma non possiamo trascurare quanto esso sia interamente circondato dal presente, così come il raffigurato circonda il raffigurabile (e non viceversa) e il testo circonda il fuori-testo (e non viceversa).

Il ricordare e il dimenticare, come vuole Severino, non sono funzioni psicologiche. Ma la stessa osservazione vale tanto per l'interpretazione quanto per l'inferenza abduttiva. Non si tratta di farsi una rappresentazione psichica della totalità sorpassata o di ritenere nell'anima i segni di ciò che è decaduto dal cerchio dell'apparire. Come il lógos di Eraclito, l'interpretazione è un fatto pubblico, e anche se riguardasse un solo interpretante si svolgerebbe pur sempre nell'aperto dei segni e dei significati. E però, almeno un interpretante ci deve essere (e dire un interpretante è già dire tutti, perché ogni interpretazione, posto che risulti in qualche effetto, che crei insomma una differenza, prende il suo posto in una catena di interpretazioni). Il senso di ogni totalità dell'apparire sta nel suo darsi. Ma darsi significa darsi a qualcosa o a qualcuno, in un qui e in un'ora. Altrimenti sarebbe necessario presupporre un accadere extra tempus davanti agli occhi di un Dio leibniziano, capace di porre l'evento in salvo per tutti i secoli dei secoli.

L'interpretazione del passato è un continuo farsi strada tra i segni che permangono. È, per usare l'espressione husserliana, la costituzione di una Umwelt, di un mondo-ambiente che si modifica passo dopo passo. È vero, come dice Severino, che la volontà di potenza dominante nel mondo della tecnica, sentendo come un affronto l'irraggiungibilità del passato, lavora alacremente all'eliminazione della differenza tra passato e presente e alla riduzione del passato a uno stato di dominabilità da parte dell'"azione [End Page 139] razionale" (1980, 203). Ma noi sospettiamo che non si salvi affatto il passato dalla follia dell'Occidente e dall'aggressione del nichilismo attribuendogli la caratteristica di ente eterno. Un passato fatto di enti eterni finisce per assomigliare bizzarramente alla luna di Astolfo, dove le cose perdute sono al sicuro dalla follia umana, che non ha mai lasciato la Terra, pur rimanendo disponibili a essere ricuperate con l'aiuto di un metafisico ippogrifo.

L'interpretazione e l'interpretato

Fin qui le nostre obiezioni. Tuttavia non crediamo che l'argumentum pro aeternitate esposto da Severino si darebbe molta pena delle confutazioni semiotico-ermeneutiche che abbiamo appena avanzato. Perplessità molto simili alle nostre potrebbero essere espresse anche da quel senso comune del quale Severino, come si è detto, a ragione non sa che farsi. Del resto, le tesi di Severino sembrano facili da confutare finché non le si osserva da vicino, finendo per restare intrigati dalla loro ipnotica coerenza stilistica. Nella sezione 15 di Destino della necessità (1980), dedicata a "L'interpretazione e il linguaggio", Severino ha pagine molto serrate sulla discrepanza irrimediabile che separa il Tutto (ciò che avevamo già definito come totalità indivisa) da ogni interpretazione, e soprattutto sull'"isolamento della terra" e del suo senso che ciascuna interpretazione comporta. Ed è proprio la pratica interpretativa di isolamento dal Tutto (altrimenti detta alienazione, perché ogni interpretazione è alienazione dal Tutto) a fare da premessa metodologica e finalistica a ogni tentativo di dominazione umana dell'esistente.

Ora, Severino osserva che ciò che resta estraneo al processo dell'interpretazione è proprio il dato, o l'interpretato. L'interpretato non è l'interpretazione (se così non fosse, dell'interpretazione non ci sarebbe nessun biso-gno). Il dato è dato solo rispetto all'interpretazione, e anche l'interpretazione è un dato (un ente). Nulla da obiettare, se non che Severino pone una differenza tra un dato-ente diciamo così "originario" da un lato (originario nel senso che fornisce supporto all'interpretazione senza risultare radicalmente "affetto" dall'interpretazione) e un dato-ente-interpretazione dall'altro lato. Ed è per via di questa distinzione che la sua argomentazione si fa più pro-blematica. Questa lampada sul mio tavolo, osserva Severino, è una figura oblunga e luminosa alla quale attribuiamo il senso (l'interpretazione) di essere una lampada. Ciò che Severino manca di osservare è che anche il sintagma "figura oblunga e luminosa" è un'interpretazione. Come descrizione, è già troppo determinata per coincidere con ciò che Husserl avrebbe chiamato il [End Page 140] "precategoriale", o con quella "datità primordiale" che Peirce a partire dal 1902 iniziò a definire Firstness, proprio per l'impossibilità di attribuirle un nome più preciso. Applicata alla lampada di Severino, una descrizione in termine di datità primordiale non potrebbe andare molto al di là dell'affermazione che "c'è del solido" o "c'è del luminoso". Sono necessarie infinite operazioni e mediazioni, mentali e culturali, per poter sostenere che c'è una figura oblunga e luminosa, e che quella figura è una lampada.

Ma mettiamo pure da parte queste obiezioni. Severino vuole essenzialmente salvare la datità del dato, l'al di qua dell'interpretazione, quella totali-tà indivisa che non dà segno di sé e che in filosofia si incontra sotto molti nomi, siano essi chôra, ricettacolo, sostanza, monade, radura o relazione simbolica (pur tutti inadeguati, perché ogni nome è già un'interpretazione). Contemporaneamente, però, Severino vuole lasciare il dato disponibile all'interpretazione, come se l'evento (il dato), attraverso l'invio (l'accadimento del senso) potesse davvero dirci la verità metafisica di se stesso e su se stesso. Di più: Severino intende preservare il dato dalla de-cisione e dall'alienazione alla quale lo sottopone l'interpretazione. Se ogni dato fosse già interpretazione, nulla di ciò che appare sarebbe interpretazione. Infatti, se l'interpretato non apparisse come tale (come ciò che non è interpretazione), nemmeno l'interpretazione potrebbe apparire come tale (come ciò che interpreta il dato). E, con ciò, l'intera impresa semiotico-ermeneutica dovrebbe essere liquidata.

Ma Peirce non ha mai negato che esista una datità. Ha solo specificato che tale datità si presenta sempre come segno, come rimando ad altre datità che a loro volte, se raggiunte, si presenteranno come segno di altre ancora. E anche l'intero progetto fenomenologico-ermeneutico, da Husserl a Heidegger, si fonda precisamente sulla liquidazione dell'ipotesi solipsistica. Il problema non è se si diano o non si diano dei dati, ma qual è la struttura dell'interpretazione che li accoglie. È solo quando la datità entra in una relazione segnica che essa può essere colta come tale (e che l'interpretazione ha luogo). D'altra parte, ed è questo il paradosso del conoscere, se una relazione segnica non accade (se il dato non mi manda un segno della sua presenza o io come soggetto interpretante non sono in grado di accedere a quel segno) non vi è nulla (o meglio: vi è nulla) che possa essere riconosciuto come datità o che possa essere ricondotto alla datità. Il problema di Peirce non è se esista o non esista una datità indipendente dall'interpretazione, perché questo è il falso problema par excellence o, detto altrimenti, è come chiedersi che rumore fa il proverbiale albero che cade nel bosco senza che nessuno lo senta. Affermiamo che la datità è anteriore alla nostra interpretazione solo perché ci fa dormire [End Page 141] sonni più tranquilli il pensare che sia così. In realtà, come diceva Hölderlin, la cultura viene prima della natura. L'interpretazione viene prima del dato, perché solo l'interpretazione può dirci che il dato esisteva già prima. Il nostro giudizio sull'anteriorità del dato è, a tutti gli effetti, una legge con valore retroattivo o una prova di ciò che Merleau-Ponty chiamava "il movimento retrogrado del vero". 1 Il mondo non è un'illusione, non è il prodotto del "genio maligno" ipotizzato da Cartesio, solo perché deve essere interpretato. Come diceva Borges, il mondo disgraziatamente è reale. Si tratterà piuttosto di comprendere per quali vie l'interpretazione riconosca la datità e come si trovi (o si ri-trovi) in accordo con essa.

Il significato "6 agosto 1945"

Per Severino, è vero, la gnoseologia che abbiamo tracciato non sarebbe convincente, basata com'è su pratiche di decisione e di separazione, nonché di isolamento della terra dalla necessità del destino e dal destino della necessità. Nella teoria della conoscenza avanzata da Severino, piuttosto, ogni isolamento prima o poi tramonta (diviene un passato), ma soltanto in questo suo stratificarsi in un passato trova il compimento del suo permanere. Perché, infatti, permane tutto intero nella stratificazione. E qui viene un'osservazione importante:

Ma il semplice decidere di prendere in mano la penna per scrivere o di accendere la lampada—il "mio" continuare a decidere e ad agire—è il riemergere di ciò che era tramontato. Il lume che il mortale si accende nella notte dell'isolamento della terra può riemergere come un lampo o come una luce che, prima di tramontare di nuovo, illumina a lungo.

(Severino 1980, 567)

Proviamo a seguire Severino, proponendo una dimostrazione di quest'ultima tesi. Prendiamo in mano la penna per scrivere, accendiamo la lampada e decidiamo di far riemergere un isolamento tramontato, un dato interpretato che ha nome Hiroshima il giorno in cui fu distrutta, il 6 agosto 1945. Subito iniziano i problemi. Anche il 6 agosto 1945, infatti, è una totalità sorpassata, un isolamento tramontato. È possibile che ci sia stato e poi non ci sia stato più? Se non era un niente era qualcosa. Infatti era qualcosa, ed era qualcosa di "isolato", ma come "isolamento" non è affatto tramontato. È ancora qui, racchiuso nella pratica di scrittura che mi permette di scrivere "6", "agosto" e "1945". Non è laggiù, incasellato nell'archivio del Tutto, quel Tutto che, come ammette lo stesso Severino, non si riduce alla totalità di ciò che appare ("il [End Page 142] Tutto non può accadere"; 1980, 589). Come chiuso in quella stratificazione, il 6 agosto 1945 non c'è mai stato. Il 6 agosto 1945, in realtà, continua ad accadere a ogni istante, non perché sia eterno come la Roma di Freud, ma in quanto oggetto pubblico che non ha altra realtà se non quella della relazione segnica (della scrittura delle testimonianze, dei suoi alfabeti) nella quale è inserito. Il significato "6 agosto 1945" è l'intreccio di una combinazione altamente complessa di pratiche della misurazione del tempo sulle quali almeno quella parte di umanità che usa il calendario giuliano si trova d'accordo. E nemmeno il significato "Hiroshima" è una pura e semplice cosa, un mero isolamento tramontato. È una città, certamente, cioè un insieme altrettanto complesso di pratiche individuali e collettive. Ma come "tutto" del suo essere "cosa" non c'è da nessuna parte, non è minimamente afferrabile e non lo era neanche prima del 6 agosto 1945.

Dove potremmo trovare, infatti, la totalità Hiroshima? In quale pratica descrittiva essa ci apparirebbe come "tutta"? In una ripresa dall'alto? Nelle cartine geografiche? Percorrendo tutte le sue strade? Studiandone la storia? Ascoltando i racconti di tutti i suoi abitanti? Vivendoci? Ma in quale quartiere, seguendo quali percorsi? Non ci mancherebbe sempre qualcosa? Non ci manca sempre qualcosa a possedere il tutto di una cosa? Non ci sarebbe sempre una distanza, se pur minima, a separarci dalla sua totalità? Non è già stato accertato infinite volte che l'unico Oggetto Totale è un oggetto perduto? Dove potremmo afferrare la forma di Hiroshima se non nella parola che ne dice il nome, nei grafi che lo scrivono, o se si vuole nel concetto—ma è pur sempre un concetto scritto—che la rende pensabile? Ovviamente, non è questo che Severino vuole. Ciò che vuole è semplice e insieme smisurato: preservare la totalità dell'apparire "Hiroshima il 6 agosto 1945" nella sua datità immediata, non nella sua interpretazione.

Quella datità immediata, però, come tale non si è mai data. Una città e un giorno del calendario non sono dati immediati della coscienza. Non possiamo dire "c'è della città", così come diremmo "c'è del rosso". Il che non vuol dire che Hiroshima non fosse reale. Non c'è bisogno di essere un corpo con un dentro e con un fuori per essere reale (per avere un'efficacia). È sufficiente essere un segno, o un significato del lógos pubblico. In un oggetto pubblico chiamato 6 agosto 1945 l'oggetto pubblico chiamato Hiroshima è stato distrutto da una bomba atomica, la quale è un altro oggetto pubblico che ha bisogno non solo di pratiche specifiche ma anche di un elevato grado di accordo collettivo per essere pensata. Quanti di noi pronunciano "bomba atomica" sapendo con una certa approssimazione che cosa stiamo dicendo? E [End Page 143] per quanti scienziati una bomba atomica è un ordigno che esplode e che uccide, o non piuttosto una serie di eleganti equazioni? Il fatto della distruzione di Hiroshima è accaduto, così come l'abbiamo descritto, solo per chi lo può interpretare in base ai significati pubblici che abbiamo menzionato. Cioè per chi, sopravvissuto, soccorritore, storico o turista che sia, ha già convenuto che nel suo orizzonte esistono significati pubblici come calendari giuliani, città e fissioni nucleari. Chi non conosce o non concorda su tali significati non ha vissuto un'esplosione atomica ma un'opera di magia, l'ira degli dèi nemici o un altro evento privato di cui noi non sapremo mai nulla.

Dal 6 agosto all'11 settembre

Un medico sopravvissuto alla distruzione di Hiroshima scrisse nel suo diario che solo sette giorni dopo l'esplosione venne a sapere che era stata una bomba atomica a cadere sulla città. Fino a quel momento l'accaduto, a lui come ad altri sopravvissuti, era parso assolutamente inesplicabile. Ma la proposizione "una bomba atomica è stata fatta cadere sopra Hiroshima" non costituiva un oggetto pubblico univoco neanche dopo che iniziò a circolare. Anzi, si sfaccettava nelle sue diverse percezioni, puntualmente registrate dalla lingua giapponese. Aveva assistito a una catastrofe [pika] chi era sopravvissuto all'interno della città, mentre era stato testimone di una differente catastrofe [pikadon] chi, al di fuori della città, l'aveva solo vista e udita (Canetti 1979, 148–50). L'espressione "distruzione di Hiroshima" era (ed è) solo una tota-lizzazione operata a posteriori, una radicale semplificazione di moltissime distruzioni, ognuna diversa per ogni testimone. Espresso altrimenti:

Dice Whitehead: ciò che è accaduto, è accaduto per sempre. Ebbene, non è vero. Gli Interpretanti finiscono (muoiono). Un evento può mantenere la sua "efficacia" (per usare la terminologia di Whitehead), ovvero la sua "presenza" (sia pure relativa), sino a che si dirige a un Interpretante futuro (come dice Peirce) [. . .]. In altri termini: l'evento permane sino a che esso giace entro la catena degli Interpretanti cui appartiene, e questa si dilata prolungandosi.

(Sini 1982, 182)

La distruzione di Hiroshima si è dilatata nella catena di interpretanti che noi siamo, ma, appunto, questo e non altro è il suo luogo. Noi siamo il suo luogo, così come altri lo saranno dopo di noi. Non il 6 agosto 1945, che non c'è più, perché come "6 agosto 1945" non c'è e non c'è mai stato se non nella totalizzazione operata dai suoi interpretanti. Del pari, anche noi interpretanti [End Page 144] "siamo" in quanto totalizzazione continua di segni e di configurazioni sorpassate e sopraggiungenti. E se l'esempio di Hiroshima è ormai storicizzato e archiviato (ma non lo sarà del tutto fino a che non si esauriranno i suoi effetti fisiologici, sui sopravvissuti e sui loro discendenti), si pensi allora a un evento più recente, come l'attentato suicida che ha distrutto le Torri Gemelle di New York l'11 settembre 2001. Quanti testi, filmati, storie individuali, analisi politiche e sociali sono stati elaborati per farsi una ragione di quel giorno? Ma in quel giorno sono accadute moltissime altre cose, molti altri "dati" che non sono stati e non saranno mai né registrati né interpretati, perché non apparivano rilevanti rispetto al crollo delle torri e alle sue conseguenze. Cose che non potranno mai essere preservate, nemmeno se tutti gli abitanti di New York scrivessero e rendessero pubblica la cronaca di ciò che a loro è accaduto in quel giorno, momento per momento. E poiché l'interpretazione collettiva futura si concentrerà sulle conseguenze storicamente più rilevanti di quella giornata, ciò che verrà dimenticato non ci sarà mai stato se non per gli interpretanti che l'hanno vissuto. Usciti che saranno tali interpretanti dalla totalità dell'apparire, quei fatti non faranno più parte dell'11 settembre 2001 come il mondo deciderà di ricordarlo e, come fatti pubblici (questa è la conclusione più difficile da accettare), non ci saranno mai stati.

Certo, Severino potrebbe ribattere che il fatto pubblico non è che una de-cisione, un'interpretazione, un taglio nel Tutto, un isolare la terra dal suo destino, e che nel destino della necessità, dove accade solo ciò che è destino che accada, tutto (quel Tutto che non si riduce all'apparire) viene preservato. La totalità dell'apparire comprendente le torri del World Trade Center non può essere diventata un niente, perché solo niente diventa niente, o meglio solo niente rimane niente. In quella totalità dell'apparire (e solo in quella) le Torri Gemelle sono rimaste quello che erano. Qui bisogna porre attenzione. La tesi appena esposta può apparire blasfema al senso comune, eppure non basta tutto il senso comune del mondo a confutarla. Non è sufficiente prendere per mano l'ipotetico sostenitore della tesi, portarlo davanti al luogo dove sorgevano le torri e fargli vedere che non ci sono più. Questo lo sa benissimo, e anzi potrebbe controbattere agevolmente che la totalità dell'apparire nella quale le torri non ci sono più è perfettamente reale, ma non ha niente a che fare e non interferisce con la totalità dell'apparire in cui le torri ci sono ancora. Ciò che è accaduto è che la totalità in cui le torri ci sono ancora è stata semplicemente sorpassata, nel cerchio dell'apparire, da quella in cui non ci sono più. Come fronteggiare questa possibile contro-obiezione? [End Page 145]

Il luogo del passato

Nel passato, Severino l'aveva già detto, l'ente rimane tutto ciò che riesce a mostrare al presente (1980, 185). Ma ciò che l'ente mostra al presente cade in una relazione di dipendenza da ciò che il presente vuole vedere o che è in grado di vedere. Dipende, per usare le parole stesse di Severino, dalla decisione di accendere la lampada e di prendere in mano la penna per far riemergere un isolamento tramontato. Che però riemergerà nel nostro presente, non nel presente che apparteneva a quell'ente, e nel quale esso non era affatto tramontato. Anche la persistenza del trauma, che sembra così indipendente dallo scorrere del tempo e che faceva immaginare a Freud una Roma compresente a tutti i suoi tempi, torna come stress o come sintomo, non come trauma, perché i fatti che hanno costituito il trauma sono tramontati, e anche se fosse possibile farli riemergere nella loro totalità ci mancherebbero pur sempre i nessi causali con gli altri infiniti fatti, cause e concause che li avevano determinati nel loro presente. La forza del trauma può essere rimasta intatta, ma il suo apparire si è a tal punto trasformato che è necessaria una ben diversa interpretazione per individuarlo.

Qui è necessario porre di nuovo e con forza la questione del senso. Il dato permane nelle infinite interpretazioni che lo possono manipolare, ma permane come inesauribile senso del suo evenire. È per questo che le interpretazioni sono infinite. Non perché esse siano banalmente e nichilisticamente equivalenti, o perché l'epoca del postmoderno abbia deciso che tout va bien, ma perché nessuna interpretazione può esaurire il senso dell'evento del dato. 2 E non può esaurirlo perché non vi accede. Ne viene illuminata, potremmo dire, ma non può sostituirsi a quella luce. Se così non fosse, infatti, l'interpretazione non sarebbe più interpretazione di nulla, perché nulla la distinguerebbe dal suo interpretato. È da questo punto di vista che l'obiezione di Severino va presa in considerazione, ma per aggiungere subito che ad essa si può dare risposta. La differenza tra l'evento e il significato, tra il senso e l'interpretazione, viene effettivamente incontro alla preoccupazione di Severino, cioè che l'interpretato non sparisca senza residui nell'interpretazione. E però va notata anche un'altra cosa: che il passato, tra tutti gli oggetti passibili di interpretazione, ha uno statuto particolare. Non è un'equazione matematica, non è un algoritmo, in altre parole non è neutro rispetto alla storicizzazione delle sue interpretazioni e non ha altro luogo al di fuori di esse. Al tempo in cui è accaduto, infatti, non era affatto passato. Eppure è proprio questa sua "proprietà", ciò che gli è più proprio, vale a dire il suo [End Page 146] non-essere-stato un passato, a rimanere inaccessibile al concetto stesso di passato. Il passato non ritorna, dice il senso comune, e forse questa volta bisognerà dargli retta. Il passato non ritorna mai com'era e non ritorna mai tutto, perché non c'è nessun "luogo" dal quale potrebbe ritornare. "Noi dicia-mo: quel che è stato è stato. Però anche sappiamo: quel che è stato non c'è più. Ma come fa a 'stare' quel che non c'è più? Dove 'sta' il passato?" (Sini 1989, 66).

La macchina del tempo non sarà mai inventata, perché il passato non esiste. O per meglio dire non esisteva (quando esisteva) in quanto passato. Ciò che ritorna continuamente, ma a partire dal presente in cui accade e dal futuro a cui è destinata, è l'interpretazione. L'eterno ritorno che riempiva Nietzsche di esaltazione e terrore è anche questo: il nuovo infinito dell'interpretazione come incessante ripresentarsi dell'inferenza abduttiva della totalità di ciò che appare, la quale include, in ogni momento del suo presente, tutte le totalità passate che ancora danno segno di sé. Poniamo il caso che nessuno più, per tutti i secoli dei secoli, decida di accendere quella particolare lampada su quel particolare scrittoio, e nemmeno di prendere in mano quella penna per far riemergere uno specifico isolamento tramontato. Seguendo Severino, dovremmo comunque affermare che quell'isolamento tramontato continua a esistere nella stratificazione delle totalità uscite dal cerchio dell'apparire. Il senso di quell'ente, in altre parole, permarrebbe in un'esistenza indipendente dal suo apparire come significato. Ma come lo si può affermare? In forza di quale evidenza? In base a quale catena deduttiva? Se un significato è stato obliato, veramente obliato, essenzialmente obliato, caduto fuori da ogni relazione segnica, da ogni inferenza abduttiva e da ogni totalità dell'apparire, che senso ha il nostro ripeterci che, per quanto inaccessibile, quel significato c'è ancora? Se non c'è traccia per nessuno di ciò che è stato, nulla è stato. O tutto è stato, ma è lo stesso Severino a dire (l'avevamo già menzionato) che "il Tutto non può accadere". La datità è, senza dubbio, ma questo suo essere non gode di nessun privilegio. È come è il Tutto e non è come non è il Nulla, e se non entra in una relazione segnica non c'è, non accade.

Una totalità dell'apparire completamente uscita dalla memoria degli interpretanti e dall'orizzonte dei segni è come se fosse occorsa in un universo precedente al nostro, prima dell'implosione che pose fine a quello e prima dell'esplosione che ha riconfigurato la materia nella forma attuale. Poniamo dunque l'eventualità improbabile, ma non logicamente assurda, che un giorno l'umanità si scordi totalmente che c'è stato un oggetto pubblico chiamato 6 agosto 1945 nel quale è accaduto il bombardamento di Hiroshima, o che c'è [End Page 147] stato un oggetto pubblico chiamato 11 settembre 2001 nel quale le torri del World Trade Center sono state distrutte. Immaginiamo che tutte le testimonianze vengano cancellate e che nessun interpretante decida più di prendere in mano la penna per riportare alla luce quelle totalità tramontate. Dove potrebbero essere collocate le evidenze e le conseguenze di quel buco nero della memoria? Soprattutto: evidenze e conseguenze di che cosa? Di mille storie personali, private, tragiche o consolatrici, inspiegabili, non cumulabili, non registrate, non condivise e perciò pubblicamente non "vere". Sapute nella dimensione privata, certamente, ma solo finché tale dimensione privata non sarà obliata dalla morte del singolo o dei suoi discendenti. Karl Popper coglieva a suo modo nel vero quando osservava che le scoperte di Robinson Crusoe non sarebbero mai accadute se grazie al salvataggio dello stesso Robinson non fossero divenute pubbliche, perché il metodo scientifico, precisa Popper, ha un carattere essenzialmente sociale e pubblico, e le scoperte scientifiche (ma noi potremmo aggiungere: tutte le conclusioni cognitive) acquistano il loro valore solo quando vengono spiegate a qualcun altro che non ne è l'autore (Popper 1963, 2: 219).

Non sarebbe questa, certamente, la conclusione di Severino, per il quale "se invece la Memoria è il luogo dove tutte le cose rimangono eternamente, allora non solo la vita offesa, ma ogni forma di vita e ogni cosa e firmamenti e affetti eternamente rimangono" (1985, 105). Certo, il pensiero è memoria, perché pensa sempre una totalità dell'apparire che scivola nel passato nel preciso istante in cui la si pensa (e ogni istante è una totalità dell'apparire). E il pensiero non può che pensare l'essere, perché è sulla coappartenenza di essere e pensiero, di eînai e di noeîn, che si fonda l'intera impresa filosofica. Il pensiero che pensa l'essere, dunque, lo ricorda e non può che ricordarlo. Ma ricordare l'essere vuol dire ricordare il segno del suo invio (il come del suo significato), non il suo evento (il che del suo senso). L'evento apre il tempo, e dunque non prende posto nel tempo. Può essere ricordato come uno dei tanti oggetti del pensiero, come un "puro ente" uguale a tutti gli altri enti, come direbbe Heidegger, ma non per ciò che fa, non come il trascendentale del tempo, come il gesto che dà luogo al tempo stesso. E però il Tutto di cui parla Severino vorrebbe essere più vicino all'evento che all'invio, soprattutto perché il Tutto, così come l'evento, accade sempre e non accade mai. Nel Tutto, certo, firmamenti e affetti sono interamente contenuti. Gli avvenimenti sono accompagnati dalla particolare tonalità emotiva che ogni testimone dell'evento aveva vissuto, istante per istante, così come dall'intera turba di pensieri e riferimenti coerenti o incoerenti che affollavano la sua [End Page 148] mente. E anche la memoria, anzi ogni memoria, è contenuta nel Tutto, ma in forma altrettanto inaccessibile dei suoi contenuti. Infatti, se il Tutto non accade, come può essere che ciò che vi rimane permanga in una qualsivoglia relazione con la memoria? È lo stesso Severino a dire che "il Tutto è l'inconscio del mortale" (1980, 592), non diverso in questo dalla Roma inconscia e stratificata immaginata da Freud. Ma, appunto, l'inconscio è ciò che non può essere portato alla coscienza. Alla coscienza giungono sintomi, sogni, lapsus, che già costituiscono interpretazioni dell'inconscio e che a loro volta hanno bisogno di essere incessantemente reinterpretati. E quando l'atto di rimemorazione si fa cosciente, non può che operare un taglio nel Tutto. Quando un ricordo avviene si origina un accadimento singolo, un isolamento al quale il Tutto rimane comunque estraneo.

O per meglio dire: vi rimane estraneo il Tutto come evento, non il Tutto come invio (come segno, e dunque come significato), perché nemmeno il Tutto di Severino sfugge alla dialettica heideggeriana di Ereignis e Schickung, di evento e invio. Se il Tutto è un significato (se significa la totalità delle totalità dell'apparire, se lo scriviamo per significare la totalità delle totalità) allora è già un'interpretazione, un isolamento, un'alienazione da se stesso, dal Tutto di cui nulla si può dire (così come, nella tradizione platonica e neoplatonica, nulla si può dire dell'Uno-Uno, mentre tutto si può dire dell'Uno-che-è). Ora, anche il Tutto come significato (il tutto-che-è, per distinguerlo dal Tutto-Tutto) non è che un "puro ente" verso il quale il pensiero può dirigersi, ricordandolo, così come ricorderebbe qualunque altro oggetto. Ma, così facendo, il pensiero ricorderebbe solo l'invio del Tutto e le sue epoche (il suo mero che cosa). Certo non potrebbe ricordare il suo evento (il suo che, il suo senso), dal momento che l'evento non è essere, e il pensiero non può pensare il non essere. L'evento non è e non c'è, aveva detto Heidegger. I nomi con cui lo si chiama, direbbe Derrida, non sono mai giusti. Eppure è proprio nell'evento del Tutto, nel Tutto come evento, non nei suoi significati, che si potrebbe collocare l'unico luogo "dove tutte le cose rimangono eternamente". Ma non c'è luogo che, più di quello, sia inavvicinabile al pensiero e alla memoria. Perché non è un luogo. Perché, fondamentalmente, non è. Severino, che è il pensatore più radicalmente anti-heideggeriano che la contemporaneità abbia espresso, si oppone radicalmente a qualunque sottomissione dell'essere al tempo. Far dipendere l'essere dalla sua storicizzazione si-gnifica, per Severino, consegnarsi inermi al nichilismo più distruttivo. Ma come si può pensare un essere salvo dal tempo senza consumarsi in una lotta infinita con i problemi già affrontati da Platone nel Parmenide e nel Sofista, e [End Page 149] mai risolti da nessuno? La riflessione, anche la nostra a proposito di Severino, su questo punto ha ancora molto cammino da percorrere. 3

Alessandro Carrera
University of Houston in Texas
Alessandro Carrera

Alessandro Carrera is Associate Professor and Director of Italian Studies at the University of Houston in Texas. He previously taught in several North American universities in positions sponsored by the Italian Ministry for Foreign Affairs. He has published extensively on contemporary Italian philosophy, literary theory, and classical and popular music. He is the author of L’esperienza dell’istante (1995), Il principe e il giurista (2001), and Lo spazio materno dell’ispirazione (2004). Carrera has also edited Giacomo Leopardi poeta e filosofo (1999) and, together with Alessandro Vettori, Binding the Lands (2004).

Note

1. "[...] una volta dato il senso, i segni acquistano valore totale di ‘segni’. Ma è necessario che il senso sia dato prima. Ma allora come lo è? Probabilmente un frammento della catena verbale è identificato, proietta il senso che ritorna sui segni [...]. ‘Movimento retrogrado del vero’ questo fenomeno: che non ci si può più disfare di ciò che è stato pensato una volta, che lo si ritrova nei materiali stessi [...]" (Merleau-Ponty 1993, 205). In questo contesto, Merleau-Ponty identifica il senso con il percepito.

2. È per questo motivo che le critiche mosse da Umberto Eco all’anarchia interpretativa del decostruzionismo e a chi indulge alla cosiddetta "overinterpretation", anche quando sono condivisibili, rimangono teoreticamente insufficienti. Si vedano Eco 1990 e 1992.

3. Sulla persistenza del passato Severino è tornato nella parte nona de La filosofia futura (Severino 1989), mentre Sini è tornato sulla relazione tra passato e interpretazione in Idoli della conoscenza (Sini 2000, 128–29).

Opere Citate

Canetti, Elias. 1979. Potere e sopravvivenza. A cura di Furio Jesi. Milano: Adelphi. Originariamente pubblicato come Die Gespaltene Zukunft: Aufsätze und Gespräche (Monaco: Hanser, 1972); e Macht und Überleben: Drei Essays (Berlino: Literarisches Colloquium, 1972).
Eco, Umberto. 1990. I limiti dell’interpretazione. Milano: Bompiani.
Eco, Umberto; Richard Rorty; Jonathon Culler; and Christine Brooke-Rose. 1992. Interpretation and Overinterpretation. A cura di Stefan Collini. Cambridge: Cambridge University Press.
Freud, Sigmund, 1971. Il disagio della civiltà e altri saggi. Traduzione di Enzo Sagittario. Torino: Boringhieri. Originariamente pubblicato come Das Unbehagen in der Kultur (1929).
Merleau-Ponty, Maurice. 1993. Il visibile e l’invisibile. Testo stabilito da Claude Lefort. A cura di Mauro Carbone. Traduzione di Andrea Bonomi. Milano: Bompiani. Originariamente pubblicato come Il visible et l’invisible: Suivi de notes de travail (Paris: Gallimard, 1964).
Peirce, C. S. On the Natural Classification of Arguments. In Collected Papers. Vol. 2, a cura di Charles Hartshorne, Paul Weiss, e A. W. Burks, 461-516. Cambridge: Belknap Press of Harvard University Press, 1960.
Popper, Karl R. 1963. The Open Society and Its Enemies Vol. 2. New York: Harper & Row.
Severino, Emanuele. 1980. Destino della necessità: Katà tò chreón. Milano: Adelphi.
———. 1981. Gli abitatori del tempo: Cristianesimo, marxismo, tecnica. 2a ed. Roma: Armando.
———. 1985. Il parricidio mancato. Milano: Adelphi.
———. 1989. La filosofia futura. Milano: Rizzoli.
Sini, Carlo. 1982. Kínesis: Saggio di interpretazione. Milano: Spirali.
———. 1989. Che ne è del passato? In Il silenzio e la parola: Luoghi e confini del sapere per un uomo planetario, 62-72. Genova: Marietti.
———. 2000. Idoli della conoscenza. Milano: Cortina.

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